Vardón sì da descóre, ma ancia da rivà a ‘na conclusión. Par fà calcòssa, par nó lassà massa rebandonàth i nòstre bósch. Se torna fòra i vèci i ne cópa…


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martedì 26 ottobre 2010

I (miei) frassini di Ligont


Il frassino è poco diffuso in territorio budoiese. Mi riferisco, ovviamente, al frassino maggiore (Fraxinus excelsior) e non all’orniello (Fraxinus ornus), che invece è diffusissimo. 
Le ragioni di questa diversa presenza sono principalmente legate alle loro esigenze ecologiche: il primo – almeno qui nel Nord-Est italiano - predilige i terreni profondi e freschi, mentre il secondo si adatta ai terreni superficiali, anche in condizioni di aridità pronunciata, situazione quest’ultima piuttosto frequente in zona, a differenza della prima.
Da giovane, dai 18 – 20 anni in avanti, quando cominciai ad appassionarmi di alberi, nel senso non solo di riconoscerli attraverso le diverse caratteristiche morfologiche, ma anche di cercare di capirne le esigenze ecologiche, oltre alle caratteristiche del loro legno e dei suoi possibili impieghi, mi ricordo che rimasi molto affascinato dal frassino.
Per me, all’epoca, vedere il frassino - una specie di orniello molto sviluppato e slanciato, dalla crescita rapida – era qualcosa di entusiasmante, di fuori dal comune.
Per capire il senso di questa mia meraviglia, c’è da dire che eravamo – io, quelli della mia età e anche quelli più vecchi – abituati a conoscere e maneggiare solo l’orniello, dato che era molto diffuso, ma anche per il fatto che ognuno di noi lo aveva utilizzato da ragazzo per costruirsi la fionda, potendone ricavare delle ottime forcelle.
In misura diversa dal frassino, ero attratto anche dall’acero montano (Acer pseudoplatanus), che negli usi sentiti raccontare dai vecchi era buono per fare gli zoccoli, perciò nel passato lo andavano a prelevare dentro il bosco del Cansiglio, dov’era più diffuso. Anche l’acero montano, come il frassino, era ed è poco presente in basso, nei boschi attorno ai paesi, dove invece è frequente l’acero campestre (Acer campestre).
Studiacchiando qua e là per cercare di capirne di più sul frassino, sull’acero montano e su altre latifoglie, che all’epoca venivano definite “nobili”, mi venne voglia di fare una piccola piantagione nel bosco di famiglia, nelle “Fosse” di Ligont, dove c’era una radura erbosa non più sfalciata.
Quel luogo, a mio avviso, si prestava bene ad accogliere le due specie che avevo individuato, poiché si tratta di una conca di fondovalle, con terreno profondo, fertile e sempre fresco, con un’apprezzabile microclima caratterizzato dall’inversione termica, adatto ad ospitare anche il faggio.
Decisi così di passare all’azione, e nel febbraio del 1984 misi a dimora una settantina di selvaggioni di frassino e di acero montano, prelevati nei rari posti dove le due specie erano presenti con esemplari adulti, che avevo negli anni individuato.
Il terreno lo avevo preparato prima dell’inverno, scavando delle belle buche profonde e larghe, così che il gelo ne avrebbe migliorato le caratteristiche e sarebbe stato più agevole sistemare per bene le piante.
Dovetti poi recintare con della rete tutta l’area così piantata, perchè c’era il concreto rischio di fallimento del mio lavoro, dato che oltre alla fauna selvatica c’era pure la frequentazione di cavalli al pascolo.
Dopo la prima stagione l’attecchimento fu del 100% e per alcuni anni mi limitai a falciare le erbe e i rovi che altrimenti avrebbero soffocato le giovani piante.
Venne poi il momento che, anno dopo anno, gli aceri si ammalarono progressivamente: all’inizio dell’estate, nel momento di massima attività vegetativa, trasudavano linfa dalla parte bassa del fusto e poi stentavano a vegetare per il resto della stagione. Mi accorsi che erano colpiti da coleotteri, probabilmente scolitidi, dal momento che si vedevano bene i minuscoli fori da loro causati sulla corteccia, da dove uscivano gli insetti adulti. Da lì sgorgava la linfa in quantità e in seguito, verso l’autunno-inverno, le porzioni di corteccia più lesionate si disseccavano e su di esse comparivano in gran numero i minutissimi carpofori di funghi del genere Nectria, dal caratteristico colore rosso intenso.
Come se non bastasse, su diverse piante, sia di acero sia di frassino, c’erano dei danni causati dalla presenza di larve di rodilegno giallo (Zeuzera pyrina) che, scavando gallerie dentro ai fusti, contribuivano a peggiorare ulteriormente la situazione.
Un piccolo compendio di fitopatologia forestale, quindi.
Per questo motivo, fui costretto a diradare prevalentemente a carico delle piante di acero, conservando maggiormente quelle di frassino.
Adesso, lì saranno rimaste un paio di piante di acero, nemmeno belle morfologicamente, che ho lasciato solo perché seminino.
Per il resto, ci sono i frassini, che ho dovuto più volte diradare altrimenti sarebbero cresciuti solo in altezza, senza aumentare gran chè di diametro.
Quest’anno sono ventisei anni che ho messo a dimora quelle piante; dopo di allora ho continuato, di tanto in tanto, a piantare altri frassini e anche dei faggi, nelle piccole buche più soleggiate. Nel frattempo, qualche altra persona appassionata ha piantato frassini e aceri su ex prati, nella zona di Ligont, investendo delle discrete superfici, solo che poi sono stati trascurati i diradamenti, cosìcché le piante ben conformate (da un punto di vista tecnologico) sono piuttosto rare.
Adesso spero che possano durare ancora un bel po’, i miei frassini di Ligont, così da diventare delle piante maestose.
Un certo timore però lo nutro sapendo che si sta diffondendo velocemente, in gran parte dell’Europa, una patologia fungina (Chalara fraxinea) che li porta a deperire. Qui in Friuli Venezia Giulia la malattia è presente soprattutto verso il confine sloveno, ma quest’anno è stata ritrovata anche negli acero-frassineti di Andreis.
Se dovesse comparire anche in Ligont... sia quel che sia... è pur sempre un fenomeno naturale... e come tale lo accetterò.

lunedì 18 ottobre 2010

I boschi cedui in Italia, oggi

Questo post non è farina del mio sacco.
O meglio: mi sembra giusto proporre, a quanti non la avessero già letta, la premessa agli Atti del 46° corso di Cultura in Ecologia , organizzato dal Dipartimento TeSAF della Facoltà di Agraria dell’Università di Padova e tenutosi dal 7 al 10 giugno scorso.
Ho solo aggiunto un link e delle sottolineature, quest'ultime forse non servivano.
Buona lettura.
P.S.: commentate pure...


"Il 46° Corso di Cultura in Ecologia affronta il tema della gestione dei boschi cedui.
Che sia tema importante e di attualità lo dimostrano alcuni dati: il recente rapporto ISPRA 97/2009 mette bene in risalto che l’Italia è il primo importatore mondiale di legna da ardere: tra il 1996 e il 2006 le importazioni di legna sono quasi quadruplicate in quantità, passando da 164.843 Mg a 796.960 Mg, e più che sestuplicate in valore, passando da 9,8 milioni di US$ a quasi 72 milioni di US$.
Contestualmente i boschi cedui rappresentano oltre 1/3 della superficie a bosco del nostro paese (IFNC 2007) ma in molte aree montane e collinari dove domina il bosco ceduo sono stati molto accentuati i fenomeni di emigrazione verso le città, con conseguente spopolamento ed abbandono delle attività tradizionali di coltivazione del bosco.
Il quadro che si forma cosi è contraddittorio: da un lato si osserva una notevole richiesta interna del prodotto principale del ceduo (legna da ardere) dall’altro un generale abbandono della coltivazione.
E’ evidente che problematiche di natura sociale, infrastrutturale e ad ambientale si intrecciano a quelle più propriamente tecniche formando un quadro complesso. Ciò obbliga ad una analisi di dettaglio, caso per caso, delle diverse condizioni al fine di proporre soluzioni tecnico-gestionali in grado di ottimizzare i benefici che tale forma di governo può fornire.
L’obiettivo del corso è proprio questo: presentare diverse analisi e soluzioni tecniche in grado di massimizzare i benefici che il bosco ceduo può fornire tenendo in considerazione e rispettando tutti i vincoli che le direttive di sostenibilità economica, sociale ed ambientale impongono.

Il direttore del corso Tommaso Anfodillo"

domenica 3 ottobre 2010

Una filiera locale della legna da ardere: a Budoia è possibile?

Questo qui sopra è il titolo del mio intervento al convegno “Abitare a legna”, tenutosi il 18 settembre scorso nell’ambito della 43^ Festa dei funghi e dell’ambiente,  a Budoia.
Il convegno, organizzato anche grazie al consistente apporto di ASSOCOSMA, quest’anno illustrava le efficienti tecniche di combustione che caratterizzano le caldaie a biomassa legnosa di ultima generazione, nonché l’importanza in termini ambientali, di sicurezza, di resa di combustione e quindi di economicità, del corretto dimensionamento ed installazione/manutenzione degli impianti di evacuazione dei fumi, tuttora generalmente ed erroneamente considerati come una sorta di “accessorio”, non di primaria importanza, dei sistemi di riscaldamento. Un altro argomento molto interessante trattato nel convegno è stato quello dell’esperienza diretta nella costruzione di un’abitazione in legno, realizzata integralmente con legname dei boschi della Val Pesarina (molto diversa e quindi non equiparabile a quelle  prefabbricate industrialmente).
Il Comune di Budoia, sulla scia del convegno 2009 (“I nostri boschi: parliamone”), nell’intento di promuovere un maggiore interesse verso una gestione multifunzionale dei boschi locali, mi ha coinvolto nel proporre delle idee che possano trovare un’effettiva applicazione.
Quindi, col discorso di adesso, mi riallaccio e dò un seguito a un mio precedente post  dove descrivevo i maggiori ostacoli a una diffusa ripresa delle pratiche selvicolturali.
Ero difatti rimasto al punto in cui ponevo la seguente domanda: cosa si può fare per arrivare a una filiera della legna da ardere nella quale i diversi attori siano locali?
Dopo aver valutato svariate ipotesi, escludendo via via quelle più onerose e difficilmente praticabili, sono arrivato a formulare una prima proposta operativa, che di per sé può apparire di portata limitata.
Per spiegarmi meglio, dopo aver avanzato l’ipotesi che a Budoia l’associazionismo (cioè la costituzione di un consorzio) non sarebbe ben accetto dai proprietari forestali privati, ho individuato come risorsa importante quei proprietari che sarebbero disposti a far tagliare i propri boschi da altri soggetti presenti in loco.
Ho quindi pensato che in presenza di un sistema in grado di offrire loro delle garanzie, la loro disponibilità potrebbe anche aumentare (per esempio, garanzie in ordine a una  remunerazione in linea col mercato e alla corretta esecuzione del taglio).
Per quanto riguarda gli ipotetici operatori forestali che materialmente interverrebbero per eseguire il taglio di questi boschi, tenendo sempre presente che in loco non ci sono imprese boschive, ho ipotizzato che sarebbero da reperire tra coloro che già si arrangiano nell’autoproduzione della legna. Si tratta cioè non di boscaioli professionisti ma di persone già dotate di un minimo di preparazione tecnica e anche del tempo libero da dedicare a questa attività, che è pertanto da intendersi a tempo parziale (anch'io sarei uno di quelli). Ho pensato a questa soluzione in quanto la più semplice e immediata, anche in considerazione che si tratta di un’attività caratterizzata dalla stagionalità (il periodo dei tagli va da ottobre ad aprile) e che difficilmente potrebbe offrire in breve tempo un reddito adeguato a chi intendesse praticarla come attività esclusiva.
Per quanto riguarda l’aggregazione tra questi diversi operatori forestali “non a tempo pieno”, la si potrebbe ottenere mediante il loro inserimento in una società cooperativa in qualità di soci lavoratori; tra l’altro, ciò permetterebbe la regolarizzazione del lavoro svolto e anche della vendita del prodotto, cioè la legna da ardere, sul mercato.
L’incontro tra la domanda e l’offerta, cioè tra i proprietari forestali e gli operatori forestali, potrebbe essere favorito e mediato da un soggetto pubblico super partes, quale l’Amministrazione comunale. Da tempo sento parlare di uno “Sportello Energia”, che dovrebbe prima o poi sorgere a livello comunale o intercomunale. Credo che nell’ambito delle politiche energetiche future, cui lo sportello sarà dedicato, un ruolo non secondario lo dovranno avere i boschi e la biomassa legnosa da essi ricavabile.
Questa che ho sinteticamente descritto è un’ipotesi per poter iniziare a fare qualcosa che si opponga al disinteresse e allo scarso utilizzo della risorsa forestale che caratterizza il nostro territorio pedemontano, non solo a Budoia.
Per il momento è solo una traccia, che abbisogna di discussione e affinamento, che richiede prima di tutto di valutare l’effettiva presenza e la consistenza numerica dei soggetti che ne sarebbero gli attori principali che, lo ripeto, sarebbero i proprietari forestali privati disposti a far tagliare i propri boschi da terzi e gli operatori forestali non professionali disposti ad incrementare la loro attività part-time.
Nel delineare la proposta di cui sopra, ho tenuto conto dei seguenti elementi:
- non imbastire mega-progetti che richiedono un consistente sostegno a base di denaro pubblico: se una certa attività è veramente antieconomica, non decollerà mai, nemmeno se foraggiata a dismisura, molti esempi visti fino ad oggi lo testimoniano;
- non immaginarsi di poter adottare sistemi di coercizione nei confronti dei proprietari forestali privati al fine di obbligarli ad accettare determinate condizioni, ovvero di “irreggimentarli”;
- politica dei piccoli passi, cioè non avere la presunzione di risolvere in breve tempo una situazione molto complessa, preferendo procedere con investimenti commisurati all’effettiva possibilità di raggiungere il risultato atteso, procedendo quindi per gradi;
- il significato da dare inizialmente all’iniziativa non è quello dell’immediata convenienza economica e delle conseguenti positive ricadute sul territorio e sulla comunità, bensì quello di suscitare curiosità, di far discutere sul significato della scelta, di coinvolgere quegli strati sociali in teoria più sensibili e pronti a recepire l’importanza del recupero gestionale dei boschi (scuole, nuove generazioni...);
- porre come obiettivo la costituzione di una “base”, cioè di un primario nucleo di un’ipotetica filiera della legna da ardere, su cui successivamente lavorare per un eventuale ulteriore sviluppo.
Tutto quello che ho detto fin qui può essere sicuramente visto come poco ambizioso, quando non di basso profilo (sarà che da piccolo suonavo il sassofono, non il trombone...).
A chi la vede in questo modo, dico che bisogna prima di tutto conoscere sia la realtà attuale del settore sia l’evoluzione che esso ha avuto negli ultimi 20-30 anni e quindi, tenendo in debita considerazione tutto ciò e con un po' di umiltà, saper riconoscere che bisogna recuperare, in chiave moderna ed almeno in parte, ciò che in passato ha costituito un’importante fonte di occupazione e un presidio del territorio che ora, purtroppo, ci appare solo come un lontano ricordo.

P.S.: Ultimamente sono sovraccarico di cose da fare e non trovo il tempo per pubblicare i post anche nel dialetto locale (come forse avrete notato). Mi dispiace veramente, spero di riprendere al più presto quella abitudine e anche di mantenerla.