Vardón sì da descóre, ma ancia da rivà a ‘na conclusión. Par fà calcòssa, par nó lassà massa rebandonàth i nòstre bósch. Se torna fòra i vèci i ne cópa…


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mercoledì 22 dicembre 2010

'Na poesiuta 'ntel bósch

LA CASSIA

Varda ‘sta cassia
varda che bestia
nó se la inbràtha
da granda che l’é

Oio e missèla
drento la séa
tira la mantia
e acèlera un póc

Cùthete in banda
de la tó cassia
planta la lama
abasso sul thòc

Taja 'na stèla
che la séa dréta
Va par davórie
e taca a seà

Sta gran aténto
co’ la se pléa
mòla dut quant
e s-ciampa lontan

Dhó che l’é dhuda
thentha problemi
Torna unlì dónge
e regola ‘l thòc

E adèss ché fato?
Legne o chè altre?
Forsi l’è miei
scurtà su dut quant

Taja le rame
scùrtele a un metro
e para in banda
la pluma pì 'n là

Taca dhó in ciàf
taca a  thoncià
dal cul  la taja
e riva fin là

Su la forthèla
adess che fato?
Forsi l’é miei
drethàla cussì

Va anciamò avanti
l’é quasi fàta
dóe-tre scurtàde
e po’ l’é finìt...

Varda che lusso
te à ormai finìt
E adéss bél bélo
ti palséte un póc

Su la giachéta
ocio la schéna
col fréit che l’é
sta gran riguardàt...

Sùjete ‘l frónt
plén de sudór
bevi ‘na nica
e vàrdete intór

Che bel lavoro
che ‘l te vin fòra
al’é fadìa
e sodisfathión

Pensa i colèghi
drento a l’ufìcio
a voltà ciarte
e po' porconà...

Altre che ló-ór...
ti te só un siò-òr!
In mièth al bó-ósch
ti e chel  pi-ta-ró-óss...

P.S.: i non budoiesi (e i poeti veri) abbiano compassione di me...

Mauro Thuciàt

venerdì 10 dicembre 2010

Produzione di legna da ardere di qualità

In un precedente post mi ripromettevo di parlare di come fare per ottenere legna di buona qualità.
Il motivo deriva dal fatto che mi capita sovente di osservare legna da ardere di qualità discutibile. Tanto per fare un esempio, poco tempo fa, alla tradizionale sagra della castagna di Mezzomonte, tra le varie cose poste in esposizione c’era un bancale di legna di faggio che, a mio avviso, non faceva una bella figura. Si trattava infatti di legna di grossa pezzatura, tonda, cioè non spaccata, molto umida e di colore scuro. Se mi trovassi nelle condizioni di dover comperare della legna, sicuramente eviterei quella che si presenta in tali condizioni, difficile da bruciare se prima non la si spacca e la si fa stagionare per un bel po’.
L’esempio serve per ricordare che in commercio si trova un po’ di tutto, dalla legna di ottima qualità a quella di qualità scadente. Il consumatore dovrebbe perciò affinare l’occhio per saper riconoscere le principali pecche, quando presenti.
Andando a monte, cioè prima della collocazione sul mercato - oppure fino all’accatastamento per la stagionatura, nel caso di legna prodotta per autoconsumo da parte di possessori di boschi - vi sono dei semplici accorgimenti che consentono di garantire una buona qualità del prodotto finale. Questi accorgimenti si applicano a partire dalle attività in bosco – che precedono e seguono l’abbattimento degli alberi - fino alle successive fasi di lavorazione e stagionatura che generalmente si svolgono fuori foresta.
Come vedremo, si tratta di piccole attenzioni che se applicate fanno la differenza. In termini generali, sono operazioni e accorgimenti che tendono a contrastare e ridurre i processi di degradazione biologica del legno. E’ anche vero, per dirla tutta, che la loro applicazione risulta più semplice e agevole nel caso del taglio di piccole superfici boschive, con limitati quantitativi di legname tondo da trasformare in legna da ardere, mentre possono confliggere con altre esigenze operative, di natura logistica e di organizzazione, quando ci si trova in presenza di ampie superfici di bosco da tagliare e grandi quantitativi di legname da trasformare, come può capitare per le attività imprenditoriali di rilevanti dimensioni.
C’è inoltre da tener presente che la degradazione biologica del legno tagliato non è uguale per tutte le specie arboree: vi sono specie il cui legno è naturalmente più durevole, che quindi sono più semplici da trattare durante il ciclo di produzione della legna da ardere (robinia, orniello, carpino nero, querce...), altre invece molto delicate in relazione alla scarsa durabilità naturale del loro legno (faggio, carpino bianco...).
Per cominciare - come insegnavano i vecchi una volta - bisognerebbe tagliare le piante in bosco in fase di luna calante e nel periodo del loro massimo riposo vegetativo, che da noi è il mese di gennaio. Abbinando questi due accorgimenti si otterrebbe un legno meno aggredibile dagli agenti di degradazione (funghi e insetti). E’ chiaro che, mentre la fase di luna calante è relativamente facile da rispettare, il periodo di massimo riposo vegetativo non lo è altrettanto. Per cui, più ci si discosta da quest’ultimo, per esempio andando a tagliare d’estate in alta montagna, dove d’inverno non è possibile operare, più si devono attuare altri accorgimenti per salvaguardare l’integrità e la qualità del legno. Nel caso in cui si tagli una porzione di bosco nel pieno dell’attività vegetativa delle piante, l’accorgimento che normalmente si adotta è quello di fare l’abbattimento degli alberi e lasciarli interi sul letto di caduta per 10-15 giorni, in maniera che il fogliame richiami a sè buona parte della linfa, prima di appassire e disseccarsi, abbassando così il contenuto idrico del legno del fusto e dei rami principali.
Solo dopo questa prima operazione, di spurgo della linfa circolante nei tessuti legnosi, si può procedere con la sramatura e la depezzatura delle piante, ricavando gli assortimenti voluti.
Dopo aver fatto queste seconde operazioni bisogna comunque non abbassare la guardia, poiché una sosta a terra in bosco del legname così allestito lo porta a degradarsi piuttosto velocemente: le condizioni di temperatura e umidità presenti in bosco d’estate favoriscono gli attacchi di funghi e insetti. Specialmente i funghi, riescono a colonizzare il legno rapidamente, innescando dapprima il cosiddetto “sobbollimento”, con ingrigimento dei tessuti legnosi e, a più lungo andare, determinando il fenomeno della carie (generalmente “carie bianca”, ove prevale la lisi della lignina presente nelle pareti cellulari). Questi fenomeni di degradazione biologica del legno svalutano qualitativamente il legname fermo in bosco e lo rendono anche più leggero, cioè meno denso (molecole complesse vengono trasformate in molecole più semplici, con rilascio di CO2, quindi con perdite in termini ponderali). Pertanto, l’esbosco del legname deve essere quanto più rapido possibile, compatibilmente con tutte le altre attività che possono impegnare un’impresa di utilizzazione boschiva.
Anche le fasi successive, cioè la lavorazione e l’accatastamento per la stagionatura, devono seguire a breve distanza di tempo, evitando quindi l’accatastamento pre-lavorazione per lunghi periodi e in condizioni tali da predisporre il legname alla degradazione (per esempio a contatto col terreno naturale e non sollevato da terra). Una volta che il legname è stato accorciato e spaccato, ottenendo la legna da ardere della pezzatura voluta, quest’ultima dev’essere posta a stagionare in un luogo che permetta una buona ventilazione, al riparo dalla pioggia.
Riassumendo, tutti gli accorgimenti che ho finora elencato sono da applicare meticolosamente nel caso in cui si abbia a che fare con specie il cui legno è di scarsa durabilità naturale, come il faggio, il carpino bianco, il pioppo, i salici ed altre ancora, specialmente quando le piante sono tagliate durante l’attività vegetativa. Viceversa, per specie il cui legno è naturalmente più durevole, come querce, robinia, carpino nero, orniello, ecc., gli stessi accorgimenti rimangono sempre validi anche se il loro mancato rispetto provoca una minore degradazione del legname e quindi delle perdite qualitative meno evidenti.
Per quest’ultime specie, solitamente tagliate in pieno inverno, l’esposizione della legna spaccata alla pioggia per un certo periodo di tempo prima della stagionatura, pare addirittura migliorarne le caratteristiche di combustibilità. Quest’ultima tecnica è praticata qui da noi per la legna ricavata dagli orno-ostrieti.
Un cenno poi al legno di castagno, che per il suo forte contenuto in tannino è meglio lasciare alle intemperie, dopo averlo spaccato in pezzi, in maniera che si purifichi. Ne deriva comunque una legna  di bassa qualità combustibile.
Per finire, inserisco alcune foto che testimoniano le “magagne” cui va incontro la legna se non gestita a dovere nell’intero ciclo di produzione.
Nella prima immagine vediamo come si presenta internamente del legno di carpino bianco rimasto a lungo (da gennaio a luglio) depositato a terra in tronco, senza essere depezzato, spaccato e messo a stagionare: il colore bianco che si nota chiaramente è dato dal micelio fungino che ha invaso i tessuti legnosi, prevalentemente a livello parenchimatico. Il legno quando è così ridotto perde la sua compattezza originaria e durante lo spacco non si apre solo in senso longitudinale alle fibre, ma anche trasversalmente alle stesse: il "gradino" che si nota in primo piano si è appunto formato durante lo spacco del tronchetto.

La seconda immagine mostra un tronchetto di carpino bianco spaccato in due pezzi, dove si può notare chiaramente, dall'alto verso il basso, la transizione tra una zona profondamente cariata e invasa da lerve di insetti xilofagi (coleotteri cerambicidi) e la sottostante zona relativamente meno degradata. In questo caso, il tronchetto è stato ricavato dalla parte alta del fusto di una pianta  rimasta stroncata in bosco per un'intera stagione. Non si tratta quindi di cattiva gestione del legname tondo depositato in attesa di lavorazione, ma comunque può rendere l'idea della facile aggredibilità di questa specie legnosa da parte degli agenti di degradazione.
La terza immagine mostra ancora la presenza delle larve all'interno di legno che si presenta ingrigito sotto l'azione di funghi che causano il "sobbollimento", quindi prima della ulteriore degradazione verso la carie bianca.

 Nella quarta immagine vediamo il degrado cui è andato incontro un tronco di robinia rimasto depositato a terra per alcuni mesi dopo il taglio. Maneggiandolo prima delle operazioni di depezzatura e spacco la corteccia si staccava facilmente poiché i tessuti floematici erano stati completamente utilizzati dalle numerose larve che si scorgono chiaramente nella foto.
Nelle ultime due immagini si vedono più chiaramente le larve, che probabilmente sono di coleotteri tenebrionidi, le nicchie sottocorticali dove si sono sviluppate e la rosura umida, simile a del terriccio, formatasi come residuo della loro attività.
Chiudo con questo la veloce carrellata sul degrado del legno di alcune latifoglie. 


domenica 14 novembre 2010

Che avventura...

Dal bosco all'armadio: una bella storia, movimentata ma a lieto fine...



Post leggero? Cosa c'entra con Budoia?
Non lo so... fate voi.

mercoledì 10 novembre 2010

Anciamò l'Artugna! (Ancora l'Artugna!)

No bastava le fotografie che ai metùt l'ultima volta, sdaramànt 'ntela réit ai ciatàt 'sto filmato,  fat da chèi de l'Artugna (théntha l'articolo davanti, cioè Artugna e nò L'Artugna: l'é 'na gran diferéntha...). Stavolta, "l'Artugna la fai pura".
Godévelo pur, al filmato e ancia la musica (se avèit 'l uài-fài, se no sarà pa' n'altra volta...).  

 Oltre alle immagini del precedente post, ora inserisco un video, realizzato da www.artugna.it e già presente in Internet. Questa volta, "L'Artugna fa paura".
Godetevi il video e anche la musica.




venerdì 5 novembre 2010

MONTANA


Il titolo non è il nome di uno dei 50 stati degli USA. Voglio parlare della montana, non del Montana. Da noi, per montana intendesi la piena irruenta dei torrenti (montani, appunto) che si verifica saltuariamente in occasione di abbondanti piogge, come quelle dei giorni scorsi. A Piancavallo, diceva la radio, sono caduti più di 600 mm di pioggia in 48 ore,  a Polcenigo più di 630 mm nello stesso tempo, vale a dire nelle giornate di domenica 31 ottobre e lunedì 01 novembre.  A Budoia, che si trova tra Piancavallo e Polcenigo, non hanno detto quale sia stata l'intensità delle precipitazioni ma, a sensazione, era praticamente la stessa delle aree limitrofe. L'Artugna, la maggiore asta torrentizia che attraversa il territorio di Budoia, che in parte segna il confine con Aviano, nel primo pomeriggio di lunedì faceva impressione per la montana che vi scorreva. Le foto che ho inserito, scattate nei pressi della "Rosta" (il guado-briglia sopra Dardago, per andare in Ligont), mi sembrano eloquenti. Cosa c'entra questo post coi boschi e il legno a Budoia? I boschi hanno un notevole effetto sulla regimazione delle acque meteoriche, favorendone l'assorbimento profondo nel suolo, limitandone lo scorrimento in superficie e allungando quindi i cosiddetti tempi di corrivazione. Mi sembra quasi di scrivere i pensierini che si facevano alle scuole elementari (una volta, non so adesso).  Eppure è così, la presenza del bosco per regimare le acque e consolidare il terreno è importante. In proposito, riferisco una conferma, empirica, di tutto questo. 
Mi ricordo che da bambino (oltre 40 anni fa) andavo a vedere, di tanto in tanto, la montana nella Panerata, che è un tratto di un rio minore poco distante da casa.  Il rumore della montana, quella volta, lo si sentiva da casa. A quei tempi, a piedi non si riusciva ad attraversare la Panerata - tanto era alta l'acqua - per andare nel Ciampestrìn, la zona prativa al di là.  Col passare del tempo, meglio dire dei decenni, la montana nella Panerata è via via diminuita per dimensione, fino praticamente a sparire o quasi. Lunedì scorso nella Panerata non c'era alcuna montana, ma solo dell'acqua che scorreva tranquillamente. 
Cosa sarà accaduto, quindi, in quarant'anni?  E' successo che nel bacino che alimenta la Panerata è cresciuto quello che attualmente viene definito bosco di neo formazione - a carpino nero, orniello e roverella - mentre in passato la montagna lì era tutta senza alberi, c'era solo erba, cespugli spinosi e dei rari ginepri. Sono convinto che questo sia il migliore esempio che mi ritrovo sottomano per apprezzare l'effetto di regimazione idrica del bosco.

martedì 26 ottobre 2010

I (miei) frassini di Ligont


Il frassino è poco diffuso in territorio budoiese. Mi riferisco, ovviamente, al frassino maggiore (Fraxinus excelsior) e non all’orniello (Fraxinus ornus), che invece è diffusissimo. 
Le ragioni di questa diversa presenza sono principalmente legate alle loro esigenze ecologiche: il primo – almeno qui nel Nord-Est italiano - predilige i terreni profondi e freschi, mentre il secondo si adatta ai terreni superficiali, anche in condizioni di aridità pronunciata, situazione quest’ultima piuttosto frequente in zona, a differenza della prima.
Da giovane, dai 18 – 20 anni in avanti, quando cominciai ad appassionarmi di alberi, nel senso non solo di riconoscerli attraverso le diverse caratteristiche morfologiche, ma anche di cercare di capirne le esigenze ecologiche, oltre alle caratteristiche del loro legno e dei suoi possibili impieghi, mi ricordo che rimasi molto affascinato dal frassino.
Per me, all’epoca, vedere il frassino - una specie di orniello molto sviluppato e slanciato, dalla crescita rapida – era qualcosa di entusiasmante, di fuori dal comune.
Per capire il senso di questa mia meraviglia, c’è da dire che eravamo – io, quelli della mia età e anche quelli più vecchi – abituati a conoscere e maneggiare solo l’orniello, dato che era molto diffuso, ma anche per il fatto che ognuno di noi lo aveva utilizzato da ragazzo per costruirsi la fionda, potendone ricavare delle ottime forcelle.
In misura diversa dal frassino, ero attratto anche dall’acero montano (Acer pseudoplatanus), che negli usi sentiti raccontare dai vecchi era buono per fare gli zoccoli, perciò nel passato lo andavano a prelevare dentro il bosco del Cansiglio, dov’era più diffuso. Anche l’acero montano, come il frassino, era ed è poco presente in basso, nei boschi attorno ai paesi, dove invece è frequente l’acero campestre (Acer campestre).
Studiacchiando qua e là per cercare di capirne di più sul frassino, sull’acero montano e su altre latifoglie, che all’epoca venivano definite “nobili”, mi venne voglia di fare una piccola piantagione nel bosco di famiglia, nelle “Fosse” di Ligont, dove c’era una radura erbosa non più sfalciata.
Quel luogo, a mio avviso, si prestava bene ad accogliere le due specie che avevo individuato, poiché si tratta di una conca di fondovalle, con terreno profondo, fertile e sempre fresco, con un’apprezzabile microclima caratterizzato dall’inversione termica, adatto ad ospitare anche il faggio.
Decisi così di passare all’azione, e nel febbraio del 1984 misi a dimora una settantina di selvaggioni di frassino e di acero montano, prelevati nei rari posti dove le due specie erano presenti con esemplari adulti, che avevo negli anni individuato.
Il terreno lo avevo preparato prima dell’inverno, scavando delle belle buche profonde e larghe, così che il gelo ne avrebbe migliorato le caratteristiche e sarebbe stato più agevole sistemare per bene le piante.
Dovetti poi recintare con della rete tutta l’area così piantata, perchè c’era il concreto rischio di fallimento del mio lavoro, dato che oltre alla fauna selvatica c’era pure la frequentazione di cavalli al pascolo.
Dopo la prima stagione l’attecchimento fu del 100% e per alcuni anni mi limitai a falciare le erbe e i rovi che altrimenti avrebbero soffocato le giovani piante.
Venne poi il momento che, anno dopo anno, gli aceri si ammalarono progressivamente: all’inizio dell’estate, nel momento di massima attività vegetativa, trasudavano linfa dalla parte bassa del fusto e poi stentavano a vegetare per il resto della stagione. Mi accorsi che erano colpiti da coleotteri, probabilmente scolitidi, dal momento che si vedevano bene i minuscoli fori da loro causati sulla corteccia, da dove uscivano gli insetti adulti. Da lì sgorgava la linfa in quantità e in seguito, verso l’autunno-inverno, le porzioni di corteccia più lesionate si disseccavano e su di esse comparivano in gran numero i minutissimi carpofori di funghi del genere Nectria, dal caratteristico colore rosso intenso.
Come se non bastasse, su diverse piante, sia di acero sia di frassino, c’erano dei danni causati dalla presenza di larve di rodilegno giallo (Zeuzera pyrina) che, scavando gallerie dentro ai fusti, contribuivano a peggiorare ulteriormente la situazione.
Un piccolo compendio di fitopatologia forestale, quindi.
Per questo motivo, fui costretto a diradare prevalentemente a carico delle piante di acero, conservando maggiormente quelle di frassino.
Adesso, lì saranno rimaste un paio di piante di acero, nemmeno belle morfologicamente, che ho lasciato solo perché seminino.
Per il resto, ci sono i frassini, che ho dovuto più volte diradare altrimenti sarebbero cresciuti solo in altezza, senza aumentare gran chè di diametro.
Quest’anno sono ventisei anni che ho messo a dimora quelle piante; dopo di allora ho continuato, di tanto in tanto, a piantare altri frassini e anche dei faggi, nelle piccole buche più soleggiate. Nel frattempo, qualche altra persona appassionata ha piantato frassini e aceri su ex prati, nella zona di Ligont, investendo delle discrete superfici, solo che poi sono stati trascurati i diradamenti, cosìcché le piante ben conformate (da un punto di vista tecnologico) sono piuttosto rare.
Adesso spero che possano durare ancora un bel po’, i miei frassini di Ligont, così da diventare delle piante maestose.
Un certo timore però lo nutro sapendo che si sta diffondendo velocemente, in gran parte dell’Europa, una patologia fungina (Chalara fraxinea) che li porta a deperire. Qui in Friuli Venezia Giulia la malattia è presente soprattutto verso il confine sloveno, ma quest’anno è stata ritrovata anche negli acero-frassineti di Andreis.
Se dovesse comparire anche in Ligont... sia quel che sia... è pur sempre un fenomeno naturale... e come tale lo accetterò.

lunedì 18 ottobre 2010

I boschi cedui in Italia, oggi

Questo post non è farina del mio sacco.
O meglio: mi sembra giusto proporre, a quanti non la avessero già letta, la premessa agli Atti del 46° corso di Cultura in Ecologia , organizzato dal Dipartimento TeSAF della Facoltà di Agraria dell’Università di Padova e tenutosi dal 7 al 10 giugno scorso.
Ho solo aggiunto un link e delle sottolineature, quest'ultime forse non servivano.
Buona lettura.
P.S.: commentate pure...


"Il 46° Corso di Cultura in Ecologia affronta il tema della gestione dei boschi cedui.
Che sia tema importante e di attualità lo dimostrano alcuni dati: il recente rapporto ISPRA 97/2009 mette bene in risalto che l’Italia è il primo importatore mondiale di legna da ardere: tra il 1996 e il 2006 le importazioni di legna sono quasi quadruplicate in quantità, passando da 164.843 Mg a 796.960 Mg, e più che sestuplicate in valore, passando da 9,8 milioni di US$ a quasi 72 milioni di US$.
Contestualmente i boschi cedui rappresentano oltre 1/3 della superficie a bosco del nostro paese (IFNC 2007) ma in molte aree montane e collinari dove domina il bosco ceduo sono stati molto accentuati i fenomeni di emigrazione verso le città, con conseguente spopolamento ed abbandono delle attività tradizionali di coltivazione del bosco.
Il quadro che si forma cosi è contraddittorio: da un lato si osserva una notevole richiesta interna del prodotto principale del ceduo (legna da ardere) dall’altro un generale abbandono della coltivazione.
E’ evidente che problematiche di natura sociale, infrastrutturale e ad ambientale si intrecciano a quelle più propriamente tecniche formando un quadro complesso. Ciò obbliga ad una analisi di dettaglio, caso per caso, delle diverse condizioni al fine di proporre soluzioni tecnico-gestionali in grado di ottimizzare i benefici che tale forma di governo può fornire.
L’obiettivo del corso è proprio questo: presentare diverse analisi e soluzioni tecniche in grado di massimizzare i benefici che il bosco ceduo può fornire tenendo in considerazione e rispettando tutti i vincoli che le direttive di sostenibilità economica, sociale ed ambientale impongono.

Il direttore del corso Tommaso Anfodillo"

domenica 3 ottobre 2010

Una filiera locale della legna da ardere: a Budoia è possibile?

Questo qui sopra è il titolo del mio intervento al convegno “Abitare a legna”, tenutosi il 18 settembre scorso nell’ambito della 43^ Festa dei funghi e dell’ambiente,  a Budoia.
Il convegno, organizzato anche grazie al consistente apporto di ASSOCOSMA, quest’anno illustrava le efficienti tecniche di combustione che caratterizzano le caldaie a biomassa legnosa di ultima generazione, nonché l’importanza in termini ambientali, di sicurezza, di resa di combustione e quindi di economicità, del corretto dimensionamento ed installazione/manutenzione degli impianti di evacuazione dei fumi, tuttora generalmente ed erroneamente considerati come una sorta di “accessorio”, non di primaria importanza, dei sistemi di riscaldamento. Un altro argomento molto interessante trattato nel convegno è stato quello dell’esperienza diretta nella costruzione di un’abitazione in legno, realizzata integralmente con legname dei boschi della Val Pesarina (molto diversa e quindi non equiparabile a quelle  prefabbricate industrialmente).
Il Comune di Budoia, sulla scia del convegno 2009 (“I nostri boschi: parliamone”), nell’intento di promuovere un maggiore interesse verso una gestione multifunzionale dei boschi locali, mi ha coinvolto nel proporre delle idee che possano trovare un’effettiva applicazione.
Quindi, col discorso di adesso, mi riallaccio e dò un seguito a un mio precedente post  dove descrivevo i maggiori ostacoli a una diffusa ripresa delle pratiche selvicolturali.
Ero difatti rimasto al punto in cui ponevo la seguente domanda: cosa si può fare per arrivare a una filiera della legna da ardere nella quale i diversi attori siano locali?
Dopo aver valutato svariate ipotesi, escludendo via via quelle più onerose e difficilmente praticabili, sono arrivato a formulare una prima proposta operativa, che di per sé può apparire di portata limitata.
Per spiegarmi meglio, dopo aver avanzato l’ipotesi che a Budoia l’associazionismo (cioè la costituzione di un consorzio) non sarebbe ben accetto dai proprietari forestali privati, ho individuato come risorsa importante quei proprietari che sarebbero disposti a far tagliare i propri boschi da altri soggetti presenti in loco.
Ho quindi pensato che in presenza di un sistema in grado di offrire loro delle garanzie, la loro disponibilità potrebbe anche aumentare (per esempio, garanzie in ordine a una  remunerazione in linea col mercato e alla corretta esecuzione del taglio).
Per quanto riguarda gli ipotetici operatori forestali che materialmente interverrebbero per eseguire il taglio di questi boschi, tenendo sempre presente che in loco non ci sono imprese boschive, ho ipotizzato che sarebbero da reperire tra coloro che già si arrangiano nell’autoproduzione della legna. Si tratta cioè non di boscaioli professionisti ma di persone già dotate di un minimo di preparazione tecnica e anche del tempo libero da dedicare a questa attività, che è pertanto da intendersi a tempo parziale (anch'io sarei uno di quelli). Ho pensato a questa soluzione in quanto la più semplice e immediata, anche in considerazione che si tratta di un’attività caratterizzata dalla stagionalità (il periodo dei tagli va da ottobre ad aprile) e che difficilmente potrebbe offrire in breve tempo un reddito adeguato a chi intendesse praticarla come attività esclusiva.
Per quanto riguarda l’aggregazione tra questi diversi operatori forestali “non a tempo pieno”, la si potrebbe ottenere mediante il loro inserimento in una società cooperativa in qualità di soci lavoratori; tra l’altro, ciò permetterebbe la regolarizzazione del lavoro svolto e anche della vendita del prodotto, cioè la legna da ardere, sul mercato.
L’incontro tra la domanda e l’offerta, cioè tra i proprietari forestali e gli operatori forestali, potrebbe essere favorito e mediato da un soggetto pubblico super partes, quale l’Amministrazione comunale. Da tempo sento parlare di uno “Sportello Energia”, che dovrebbe prima o poi sorgere a livello comunale o intercomunale. Credo che nell’ambito delle politiche energetiche future, cui lo sportello sarà dedicato, un ruolo non secondario lo dovranno avere i boschi e la biomassa legnosa da essi ricavabile.
Questa che ho sinteticamente descritto è un’ipotesi per poter iniziare a fare qualcosa che si opponga al disinteresse e allo scarso utilizzo della risorsa forestale che caratterizza il nostro territorio pedemontano, non solo a Budoia.
Per il momento è solo una traccia, che abbisogna di discussione e affinamento, che richiede prima di tutto di valutare l’effettiva presenza e la consistenza numerica dei soggetti che ne sarebbero gli attori principali che, lo ripeto, sarebbero i proprietari forestali privati disposti a far tagliare i propri boschi da terzi e gli operatori forestali non professionali disposti ad incrementare la loro attività part-time.
Nel delineare la proposta di cui sopra, ho tenuto conto dei seguenti elementi:
- non imbastire mega-progetti che richiedono un consistente sostegno a base di denaro pubblico: se una certa attività è veramente antieconomica, non decollerà mai, nemmeno se foraggiata a dismisura, molti esempi visti fino ad oggi lo testimoniano;
- non immaginarsi di poter adottare sistemi di coercizione nei confronti dei proprietari forestali privati al fine di obbligarli ad accettare determinate condizioni, ovvero di “irreggimentarli”;
- politica dei piccoli passi, cioè non avere la presunzione di risolvere in breve tempo una situazione molto complessa, preferendo procedere con investimenti commisurati all’effettiva possibilità di raggiungere il risultato atteso, procedendo quindi per gradi;
- il significato da dare inizialmente all’iniziativa non è quello dell’immediata convenienza economica e delle conseguenti positive ricadute sul territorio e sulla comunità, bensì quello di suscitare curiosità, di far discutere sul significato della scelta, di coinvolgere quegli strati sociali in teoria più sensibili e pronti a recepire l’importanza del recupero gestionale dei boschi (scuole, nuove generazioni...);
- porre come obiettivo la costituzione di una “base”, cioè di un primario nucleo di un’ipotetica filiera della legna da ardere, su cui successivamente lavorare per un eventuale ulteriore sviluppo.
Tutto quello che ho detto fin qui può essere sicuramente visto come poco ambizioso, quando non di basso profilo (sarà che da piccolo suonavo il sassofono, non il trombone...).
A chi la vede in questo modo, dico che bisogna prima di tutto conoscere sia la realtà attuale del settore sia l’evoluzione che esso ha avuto negli ultimi 20-30 anni e quindi, tenendo in debita considerazione tutto ciò e con un po' di umiltà, saper riconoscere che bisogna recuperare, in chiave moderna ed almeno in parte, ciò che in passato ha costituito un’importante fonte di occupazione e un presidio del territorio che ora, purtroppo, ci appare solo come un lontano ricordo.

P.S.: Ultimamente sono sovraccarico di cose da fare e non trovo il tempo per pubblicare i post anche nel dialetto locale (come forse avrete notato). Mi dispiace veramente, spero di riprendere al più presto quella abitudine e anche di mantenerla.

domenica 19 settembre 2010

Laboratorio Urbano Budoia 2020. Cos’è ‘sta roba?

Per chi non lo sapesse – udite, udite – a Budoia è iniziato da qualche mese un percorso partecipativo nel quale è la cittadinanza che può e che deve esprimere i propri modi di intendere e di immaginare il futuro dei nostri paesi e del territorio circostante.
L’iniziativa è partita per volontà dell’attuale Amministrazione comunale e tutto il lavoro viene portato avanti dall’arch. Monia Guarino, di Bologna, assieme ad alcuni suoi collaboratori. Uno staff di persone esperte che ha già portato a termine qualche decina di altri lavori analoghi in giro per l’Italia (anche a Pordenone, per intenderci).
E’ la prima volta che accade qualcosa di simile da noi, cioè che vi sia l’opportunità per un cittadino qualsiasi di manifestare le proprie idee sulle cose da farsi (o da evitare di farsi...), da qui al 2020, e che poi quest’ultime, invece di finire dissolte nel nulla, vengano registrate, confrontate, discusse, valutate e infine magari anche recepite in un documento che potrà fungere da supporto alle scelte dell’Amministrazione comunale.
Bene, quindi, direi.
Venerdì 3 e sabato 4 settembre scorsi ci sono stati i due primi incontri veri e propri con la cittadinanza, nei quali chiunque poteva partecipare. Prima di quegli incontri, erano stati recapitati avvisi attraverso la posta a tutti i cittadini ed esposti degli avvisi pubblici. La partecipazione è stata considerata buona il venerdì, un po’ sotto tono il sabato, specialmente nel pomeriggio.
C’era da aspettarselo: mi si dica pure presuntuoso, ma noi qui (gli autoctoni, perlomeno), sotto sotto non crediamo molto a queste cose della partecipazione, del dovere civico, eccetera. Preferiamo (siamo abituati a) risolvere i problemi, quelli "strettamente personali" come quello di voler costruire la baracca nell’orto o cambiare destinazione urbanistica al prato dietro casa, prendendo sottobraccio l’assessore o il sindaco o non importa chi altro, per discuterne al bar, meglio se davanti a un’ombra de vin.
Quindi, ombra de vin a parte, come nel resto d’Italia, dirà giustamente chi legge!
Io dico comunque, nonostante la partecipazione non proprio numerosa, che è meglio sia andata così piuttosto che il niente di prima: le cose vanno in qualche modo iniziate e poi portate avanti nel tempo. Se si fossero dovuti attendere dei segnali che avessero indicato il momento buono per avere una grande partecipazione, probabilmente l’iniziativa non sarebbe ancora partita né mai partirebbe.
Dopo questa interminabile premessa, quello che mi interessa dire è che nel corso dell’attività svolta nei due incontri, tra le caratteristiche di Budoia più frequentemente individuate dai partecipanti al laboratorio come importanti e dotate di potenzialità intrinseche, ci sarebbero gli elementi del paesaggio naturale più rappresentativi della nostra area: la montagna, i sentieri, il bosco, i prati naturali dell’alta pianura con i loro bars (le siepi arboree) e i masarons (i cumuli di sassi da spietramento dei terreni, depositati lungo i confini tra le proprietà). Assieme, vi sarebbero poi tutti gli elementi tipici dell’architettura spontanea di un tempo, rinvenibili nei centri storici dei paesi, come le case in sasso, i portoni ad arco e numerose altre componenti caratterizzanti il contesto abitativo.
In estrema sintesi:  legno e pietra.
Per quanto riguarda i boschi, è scaturita l’importanza di un loro mantenimento in condizioni migliori delle attuali, in un’ottica di multifunzionalità e non solo considerando la loro funzione produttiva.
Io, personalmente, ho cercato di insistere sulla necessità di mantenere i prati stabili naturali dell’alta pianura, fino attorno ai paesi, al fine di scongiurarne l’imboschimento (naturale o artificiale, poco importa). A differenza dei boschi, che si mantengono da sé (cambieranno le specie, ma il bosco rimane bosco), i prati sono degli ecosistemi artificiali creati dall’uomo, per cui il loro mantenimento, per motivi paesaggistici e di biodiversità, deve essere costantemente garantito (che tradotto in parole povere significa che almeno un paio di sfalci di erba all’anno bisogna farli). Ci sono già, difatti, prati che si stanno completamente chiudendo, oppure siepi che tendono a colonizzare il prato (specialmente attraverso i polloni radicali di robinia e ailanto).
Un territorio completamente invaso dal bosco non è né bello né ecologicamente vario e interessante come lo è un territorio dove l’alternanza tra bosco e prato viene preservata.
Non mi dilungo oltre, anche se di cose da dire ce ne sarebbero ancora. Più avanti aggiornerò sul procedere del Laboratorio Urbano Budoia 2020.

venerdì 10 settembre 2010

Arboreto salvatico

Ho recentemente ricevuto in dono, da una coppia di amici, il libro “Arboreto salvatico”, di Mario Rigoni Stern.
L’ho subito apprezzato come regalo, per un senso di stima che ho sempre nutrito verso l’autore.
E’ un libretto sottile, consta di un centinaio di pagine, ma ciò non limita la trasmissione di quegli elementi di sensibilità ed emotività di chi, per una vita, ha saputo osservare l’incanto della natura e delle sue manifestazioni.
Il libro descrive venti diverse specie arboree che lo stesso autore aveva piantato nel terreno circostante la propria abitazione, sull’altopiano di Asiago.
Ogni singola descrizione tratta vari aspetti: dalle caratteristiche botaniche, all’ecologia, agli usi del legno, fino alle credenze popolari e ai miti dell’antichità.
E’ piacevole leggere queste descrizioni, con esse si fa un po’ una ripetizione di cose già conosciute e un po’ una scoperta di aspetti meno noti.
La cosa più importante, per me, è però il grande equilibrio nell’approccio con gli alberi e il bosco che l’autore dimostra di possedere, che si coglie nettamente nell’introduzione. Egli infatti, nel momento stesso in cui riconosce il grado di dipendenza in cui si trova l’uomo rispetto alle foreste, ricorda come il rispetto delle regole selvicolturali, definite in secoli di attività a partire dalla Repubblica di Venezia, possa garantire contemporaneamente il godimento dei servigi che la foresta offre e la perpetuazione della stessa in efficienti condizioni.
In definitiva, l’uomo non è sempre e necessariamente elemento di disturbo, ma può essere gestore accorto del patrimonio naturale.
Per quanto possiamo, ricordiamocelo e ricordiamolo agli altri: è importante.

Arboreto salvatico

‘Na cùbia de amighi i me a apéna regalàt al libre “Arboreto salvatico”, de Mario Rigoni Stern.
Al me a plasùt subito come regalo, parchè Rigoni Stern lo ai sempre consìderat un òn da stimà.
L’é un librùt sotìl, a l’à un thentenèr de pagine, ma chisto nó l’inpedìss da véde la sensibilità e l’emotività de chi che, par duta la só vita, a l’à savùt vardà l’incanto de la natura e de le só manifestathións.
Al libre al descrìf vinti difarénti cualità de alberi che al stesso autór l’aveva inplantàt ‘ntel terén intór via ciasa sóa, su l’altopiano de Asiago.
Ogni descrithión la parla de diverse robe: da le robe de botanica, a l’ecologia, ai usi del lénc, fin a le credenthe popolari e ai miti de l’antichità.
L’é da gòdesse a liédhe ‘ste descrithións, se fai un ripasso de robe beldà cognossùde e ancia ‘na scoperta de robe nóve.
Chèl che l’é pì inportante, par mi, l’é però ‘l gran ecuilibrio che l’autór al dimostra da ‘vé cuàn che ‘l parla de i alberi e de i bósch, che se lo ciàta pulido ‘nte la introduthión.
Lui difati, ‘nte ‘l stesso momento che al ricognóss la dipendéntha dei òmis ‘nte i confronti d’i bosch, al tin presente che ‘l rispèto de le regole pa’ tajà i bósch, definide in sècui de atività a partì da la Republica de Venethia, al pól garantì sia ‘l godimento de i servìthi che ‘l bósch al òfre, sia ‘l mantenimento in bòne condithións del stesso bósch.
E alòra, par finì, l’òn nó l’é senpre e par fortha un elemento de disturbo, ma ‘l pól ésse gestór aténto del patrimonio de la natura.
Par tant che podón, pensónselo e tornón a failo pensà a chei altre: l'é inportante.

sabato 21 agosto 2010

Umidità del legno - 1 : è congruo il prezzo della legna che comperiamo?

Ho pensato di scrivere questo post per far riflettere sull'importanza dell'umidità presente nel legno. Indipendentemente dalla specie legnosa, la legna da ardere di qualità, oltre a presentarsi bella sana, cioè senza segni visibili di degradazione biologica (funghi, insetti...), dovrebbe essere anche ben stagionata per garantire un contenuto in acqua uguale o inferiore al 20%. Tale infatti dev'essere il contenuto idrico per non incidere negativamente sulle caratteristiche di combustibilità della legna da ardere.
In attesa che anche da noi si diffonda una cultura commerciale più evoluta, simile a quella già presente in altri Paesi europei (Germania docet), che preveda la messa in vendita solo di legna  adeguatamente stagionata, con contenuto idrico pari o inferiore al 20%, cerchiamo di ragionare sul nostro presente.
Non sono infatti così lontani i ricordi di qualche commerciante furbo che vendeva (inutile dirlo, a peso) la legna il più umida possibile, cioè fresca  e appena spaccata. Ho sentito addirittura raccontare di qualcuno che prima di venderla la manteneva umida, bagnandola con dei getti a pioggia.
A parte gli aneddoti, quello che adesso ci interessa capire è innanzitutto quanto l'acquirente ci può perdere acquistando della legna non ben stagionata e quindi cosa può fare per evitare certe fregature.
Non disponendo di dati statistici che ci possano indicare qual'è la percentuale di umidità con la quale più frequentemente viene venduta la legna da ardere sul mercato locale,  nella tabella sottostante l'ho fissata arbitrariamente al 25%. A tale valore di umidità ho quindi abbinato un prezzo di vendita pari a 12,00 euro/quintale. 
Scorrendo la tabella verso l'alto e verso il basso, a partire dalla riga mediana di colore verde chiaro (25% umidità - 12 euro/quintale), possiamo vedere come dovrebbe variare il prezzo della legna al variare della sua umidità.
Per fare un esempio, la stessa legna che  vale 12 euro/quintale col 25% di umidità, se fosse ben stagionata, con umidità inferiore al 20%, potrebbe valere da 12,70  a oltre 13,00 euro/quintale. Viceversa, se invece del 25%  avesse il 30% o più di umidità, il prezzo si avvicinerebbe agli 11,00 euro/quintale.






Tornando alla realtà - In pratica, una prassi  molto diffusa vuole che la legna venga venduta a peso, senza che se ne conosca l'umidità, con il rischio di comperare un certo quantitativo d'acqua pagandolo come se fosse legno (ben difficilmente può accadere il contrario).
Un breve calcolo (sempre con riferimento alla tabella qui sopra): se comperassimo 20 quintali di legna pagandola 13,00 euro al quintale e poi misurandone l'umidità scoprissimo che è ben superiore al 25%, tireremmo l'amara conclusione di averla pagata almeno 1,00 euro/quintale in più del suo valore reale.
Oppure, vista in altro modo, potremmo dire che per ogni quintale di legna comperata, invece di avere 90 kg o più di legno secco, ne avremmo  85 o di meno, cioè almeno 5 kg in meno. Il che, moltiplicato per i 20 quintali sopra ipotizzati, farebbero 100 kg di legno in meno (e quindi di acqua in più).
In pratica, sarebbe come se avessimo comperato 19 quintali di legna e 1 quintale di acqua, pagandoli allo stesso prezzo di 13 euro/quintale.
Per dirla in soldoni, avremmo pagato ben 13,00 euro per comperare quell'ettolitro d'acqua di troppo.
L'esempio che ho fatto è sufficiente a spiegare che, anche se ciò avviene abbastanza correntemente, non ha senso comperare la legna a peso quando non se ne conosce il contenuto di umidità. 
Chiudo qui e rimando a un'altra volta il discorso sul come fare per evitare le fregature tipo quella dell'esempio qui sopra.

Umidità del lenc -1: Elo giusto 'l préthio de le legne che cronpón?

Ai pensàt da scrive ‘sto post par fà pensà su l’inportàntha de l’umidità che l’é ‘ntel lénc. Nó inporta de cual lénc, ma le legne de cualità, in pì che ésse bèle sane, théntha séncs de caròi o de sabuimént, le avaràve da ésse ancia bèle sute, co’ n’umidità del 20% o de manco. Chèla l’à da ésse l’umidità par nó fà scàde le carateristiche da brùso de le legne.
Intànt che spetón che ancia unchì de nealtre ciàpe pié ‘na cultura del comèrcio pì evoluda, che la sómee a chèla de therti altre paéis de l’Europa (la Germania la ne insegna), unlà che i vénth le legne doma cuan che le é bèle séce, có l’umidità del 20% o de manco, thercón da ragionà su le robe cuotidiàne.
Nó i é cussì lontàns, difàti, i ricordi de cualche comerciante furbo che ‘l vendeva (al’é de bant dìselo, a peso) le legne al pì umide che ‘l podéva, fres-ce apèna spacàde. Ai sentùt adiritùra contà de cualchedùn che prima da vende le legne al féva de dut par mantìgnele umide, bagnandole coi gèti compàin de la plóia.
A parte ‘ste storie, chél che adéss al ne interèssa da capì al’è prima de dut cuant che ‘l pól pèrde chèl che ‘l crónpa le legne póc séce e ancia chè che ‘l pól fà par nó restà freàt.
Sicóme che nó ai dati che i pól indicà có cuala umidità le vin vendùde pì de spéss le legne ca de neàltre, ‘nte la tabèla ca sóte l'ai fissàda mi al 25%. Ai dopo pensàt da fà corispónde a chéla umidità là un valór de le legne de 12,00 euro al cuintàl.
Dhìndo su e dhó pa’ la tabèla, a partì da la riga che l’é ‘ntel miéth, chèla verdolìna (25% umidità – 12 euro/cuintàl), podón véde come che l’avaràve da canbià ‘l prèthio de le legne a seconda de l’umidità.
Par fà un esenpio, le stesse legne che le val 12 euro al cuintàl col 25% de umidità, se le fóss bèle séce, có ‘n’umidità sóte ‘l 20%, le podaràve valé da 12 euro e 70 a pì de 13 euro al cuintàl. Se a l’incontrario invéthe del 25% le ‘véss al 30 o pì par thénto de umidità, al prèthio al saràve intór ai 11 euro al cuintàl.


Tornànt a la realtà – L’usàntha pì in vóga l'é chèla da vende le legne a peso, théntha che se sàpia l’umidità, col ris-cio de cronpà un tot de aga e pajàla conpàin del lénc (lé difìthile che póssia capità l’incontrario).
Un calcolo a la svelta (senpre riferìt a la tabèla ca par sóra): se neàltre cronpessàn 20 cuintài de legne pajàndole 13 euro a cuintàl e po’ dopo, misurando l’umidità vignessàn a savé che l’é tant de pì del 25%, tiressàn la conclusión da ‘véle pajàde almanco 1 euro in pì al cuintàl.
Opùr, vedéndola in un’altra maniera, podessàn dise che par ogni cuintàl de legne cronpàde, invéthe de ‘vé 90 chili o pì de lenc sec, i n’avessàn 85 chili o ancia de manco, che vól dise almanco 5 chili de manco. Che moltiplicàth pai 20 cuintài che diséve prima, i fai 100 chili de lenc de manco (e de aga in pì).
Vól dise che saràve come se 'vessàn cronpàt 19 cuintài de légne e un cuintàl de aga, pajandóli al stéss préthio de 13 euro al cuintàl.
Par dila duta, par cronpà chel cuintàl de aga in pì, avessàn pajàt 13 euro.
L’esenpio che ai fat al basta par fà capì che nó l’à senso cronpà le legne a peso, théntha cognósse l’umidità, ancia se l’é un sistèma anciamò tant in vóga.
Sère ‘l discorso unchì e la cuestión del come fà par nó restà freàth có le legne umide la spiegarài ‘n’altra volta.

sabato 14 agosto 2010

Parliamo del sondaggio qui a fianco

I risultati del sondaggio sulle condizioni dei boschi di Budoia, che compare qui a destra da quando ho aperto questo blog, abbisognano di qualche commento, dato che il termine per votare è scaduto il 18 luglio scorso.
I votanti sono stati 17 e, in ordine di importanza numerica, i risultati dicono che, mediamente, i boschi attorno a Budoia sembrano:
- poco e male gestiti (10 voti, 58%);
- discretamente gestiti (4 voti, 23%);
- abbandonati (2 voti, 11%);
- ben gestiti (1 voto, 5%).
Facendo quindi un’analisi “con l’accetta” (e come se no...) e tenendo conto del detto popolare secondo il quale “la verità stà nel mezzo”, direi che le due risposte “boschi abbandonati” e “boschi ben gestiti” si possano considerare poco rappresentative della realtà locale.
Per cui direi che le rimanenti risposte possono indicare con buona approssimazione la realtà dello stato dei nostri boschi.
Mi rincuora il fatto che almeno 4 voti abbiano sostenuto che vi siano boschi discretamente gestiti, a testimonianza che non tutto appare completamente andato in malora...
Comunque, per concludere, la questione dello stato dei boschi non la si può certamente considerare risolta dopo questo sondaggio. L’argomento sarà da riproporre e trattare in altre e più opportune sedi, come per esempio nel corso dei lavori d’indagine del Laboratorio Urbano (processo di pianificazione territoriale partecipata promosso dall’Amministrazione comunale) e anche nel corso del prossimo convegno del 18 settembre alla tradizionale Festa dei funghi e dell’ambiente.

Parlón del sondàgio ca in banda

I risultati del sondàgio su le condithións dei bósch de Budója, che ‘l’é unchì in banda da cuan che ai vèrt ‘sto blog, i à bisòin de cualche comento, visto che dal 18 de lùi l’é finìt al periodo par votà.
I à votàt in 17 e, par órdin de importàntha, i risultati i diss che in media i bósch intór via de Budója i soméa:
- póc e mal tignùth (10 voti, 58%);
- discretamente tignùth (4 voti, 23%);
- rebandonàth (2 voti, 11%);
- tignùth pulìdo (1 voto, 5%).
Fando ‘na ‘nalisi “co’ la manèra” (e comót se no...) e tignendo cont del déto che 'l diss che “la verità la é ‘ntel miéth”, disaràve che dóe de le risposte – chèla “bósch rebandonàth" e chel'altra “bósc’ tignùth pulìdo” – podón consideràle póc centràde su la realtà nostrana.
E alòra mi diràve che chéle altre dóe risposte che rèsta le pól indicà pì pulìdo le vère condithións dei nostre bósch.
Sói contént che almanco 4 voti i àpia indicàt che i nostre bósch i soméa discretamente tignùth, forsi nó ‘l’soméa che séa dhut in malora dut cuant...
Comuncue, par serà ‘l discorso, la cuestión de le condithións dei bósch nó se pól consideràlà finìda co' chisto sondàgio ca. La cuestión sarà da tornala a tirà in bal par parlàin anciamò in altre lócs, come par esenpio drento i lavori de indagine del Laboratorio Urbano (unlà che ‘l Comùn al fai partecipà la dhént a la pianificathión teritoriàl) e ancia ‘ntel pròssin convegno del 18 de setenbre a la Festa dei fónch e de l’anbiente.

domenica 8 agosto 2010

Sappiamo conservare la legna da ardere?


Può apparire banale o addirittura superfluo parlare delle modalità di conservazione della legna da ardere. Avendo però constatato con quale frequenza certi errori si ripetono, forse è il caso di dire qualcosa.
Che la legna da ardere prediliga i luoghi asciutti e ventilati, riparata dalla pioggia diretta già lo sappiamo. Ma perché allora talvolta capita di vedere delle cataste di legna collocate in ambienti poco idonei per la conservazione o realizzate senza quegli accorgimenti che ne preserverebbero la qualità?
E perchè, in casi estremi, possiamo trovare nel cuore di certe cataste dei pezzi di legna umidi e ricoperti da un vello di muffa grigia che tanto ricorda il mantello del mio gatto?
Le mie risposte, in ordine decrescente di banalità, sono le seguenti:
1) troppo spesso abbiamo una fretta immotivata (o meglio, i motivi sono assurdi) che ci spinge ad accatastare la legna ancora fresca - o troppo poco stagionata - in luoghi ove non potrà mai stagionarsi definitivamente perchè privi di adeguata ventilazione (è prassi abbastanza diffusa quella di riporre la legna entro locali chiusi come garage, ex stalle, ripostigli vari);
2) quasi sempre si trascura l’aspetto della ventilazione della catasta, cioè di favorire la circolazione d’aria su più lati. Indipendentemente dal tipo di pavimentazione presente, è meglio se la catasta viene mantenuta sollevata da terra (per esempio usando dei pallet), per ridurre lo scambio di umidità col suolo (la legna tende ad assorbire l’umidità del suolo e non viceversa). Anche lateralmente e sul retro, bisogna fare in modo di mantenere un’intercapedine tra la catasta e le pareti, per assicurare un certo giro d’aria.
Mi sembra così di aver elencato i motivi che di solito impediscono a qualcuno di avere in casa della legna ben conservata. Forse però è tutto troppo semplice. Adesso i miei ricordi corrono al passato, a un budoiese convinto che la legna del tal bosco non fosse buona da ardere come quella del tal altro bosco, con riferimento alle stesse specie arboree. Poi scoprivo che, per abitudine di un'intera vita, questi ammassava la legna ancora fresca in condizioni a dir poco scandalose, con tutto ciò che ne seguiva (catrame nella stufa, altro che brace...). Ecco allora un consiglio: piuttosto che accatastare la legna in certi locali umidi e privi di ventilazione, meglio accatastarla in un luogo aperto, come un’aia, purché sollevata da terra e ben coperta al di sopra (così la ventilazione è garantita e l’eventuale pioggia trasportata dal vento si asciuga dopo poco).
Comunque, per finire, la legna da ardere buona la si ottiene prestando attenzione lungo tutto il suo ciclo di vita, cioè a cominciare dal taglio delle piante in bosco e in avanti, fino alla bocca della stufa. Ciò che voglio dire è che se abbiamo a che fare con legna di cattiva qualità non è con l’accatastamento corretto e in condizioni ottimali che ne miglioriamo le caratteristiche. Cattiva è e cattiva rimane; tutt’al più possiamo evitare che la qualità peggiori ulteriormente.
In un prossimo post parlerò di come fare per ottenere legna di buona qualità dai tagli che noi proprietari privati facciamo per autoconsumo (e che faremo non so ancora per quanto...)

Sono bóins da méte via le legne?

La pól someà ‘na roba da póc o magàre no necessaria, chèla da métesse a parlà de comót che se à da fà par méte via le legne. Avendo però vedùt cuante volte che se torna a ripète thèrte capèle, forsi ‘l’é ‘l caso da dise calcòssa.
Savón beldà che le legne l’é da mètele a cuèrt da la plója, che le à da sta al sut e unlà che gira l’aria. Ma parchè alòra cualche volta capita da vède dele tasse de legne metùde in lócs unlà che le fai fadìa a salvàsse opùr intassàde malaméntre, théntha nessuna atenthión par mantìgnele sane?
E parché in thèrte situathións podón ciatà - ‘ntel miéth de le tasse - i stòcs ùmeth e sfodràth de ‘na vèlma de mufa grisa, uso ‘l pèl del me giàt?
Chiste ca sót ‘lé le me dóe risposte, la prima l'é chèla pì semplice:
1) massa de spéss avón tanta premura théntha motivo (al’é mièi dise che i motivi i é stupidi) e alòra tacón a mète via e intassà le legne cuan che le è anciamò fres-ce - o massa póc sèce - drento a thèrti lócs unlà che nó le podarà mai seciàsse abastàntha, par via ché nó gira l’aria (tàins de nealtre i mèt le legne drento a lócs seràth come i garàss, stàles vèci, stanthiàte ùmide);
2) cuasi sempre nó vin calcolàt al fato che l’aria l’à da podé girà intór via de la tassa. Thèntha stà a vardà cuala pavimentathión che l’é par tèra, la tassa l’é mièi che la stai solevàda dal terén (magare doperànt dei bancài), cussì le legne no’ le ciapa l’umidità da par tèra (le legne le sorbìss l'umidità dal terén, no ‘l contrario). De ca e de là e ancia par davór, la tassa l’é da lassàla destacàda dai murs chél tant che basta parchè che póssia girà l’aria.
Me soméa da ‘vé spiegàt i motivi che par solito i impedìss a cualchedùn da salvà pulido le legne par ciasa. Forsi però metùda cussì la é massa semplice. Adéss me torna in amént de ‘na volta, de un da Budóia che l’era convinto che le legne del tal bósch nó le fóss bòne come chèle de chel’altre bósch”, e ‘l parlava de ‘l stess tipo de lénc. Dopo vignéve a savè che lui, abituàt par duta ‘na vita, al inmaseràva le legne anciamò fres-ce drento ‘na stanthiata ùmeda e théntha che fóss circolathión de aria, co’ le conseguenthe che se pól inmaginà (catrame ‘nte la stua, altre che bóre...). Eco alòra un consèi: pitòst che intassà le legne in cualche stanthiàta ùmeda, unlà che no gira l’aria, l’é mièi intassàle in mièth al cortìf, solevàde da tèra, basta che par sóra le séa cuèrte benón (almanco gira l’aria e se le ciapa la plója de stravént, le se sùja da nóf in póc témp).
Comuncue, tant par finì, le legne bòne se le fai stando atenti a un grun de robe, a tacà dal tajà i alberi ‘ntel bósch e da unlì in avànt, fin 'nte la stua. Chèl che vói dise l’é che se avón a che fà co’ legne de chèle malaméntre, nó l’é col fà le tasse pulìdo e unlà che va bin che le legne le devénta mièi. Se le é malaméntre, le resta malaméntre; dut al pi podón fà in maniera che nó le devénte pèdho.
‘N’altra volta, pi avanti farài un post sul come fà par ‘vè legne bòne dai tais che nealtre paròns privàth de bósch fón par ciasa (e che continuarón a fà nó sai par cuant, anciamò...)

lunedì 2 agosto 2010

La selvicoltura discussa (e aperta)

La selvicoltura, mi pare di capire, non è una disciplina statica e immutabile. Cioè non esistono “ricette” (criteri di taglio), confezionate su misura per ogni determinato tipo di bosco, che una volta definite siano poi valide per sempre. La selvicoltura tende piuttosto a dare delle risposte di volta in volta, di caso in caso, tenendo conto di tutta una serie di condizioni presenti in un determinato luogo e in un determinato momento. Quindi, tale processo di ridefinizione (o di riproposizione) dei criteri di taglio è destinato a ripetersi, periodicamente, su di una stessa particella forestale. Recentemente ho partecipato con piacere a una interessante discussione sul ruolo dei boschi cedui in un’ottica di gestione multifunzionale e sostenibile. Ciò è avvenuto durante il 46° Corso di Cultura in Ecologia, organizzato dal dipartimento TeSAF, della Facoltà di Agraria dell’Università di Padova, dal 7 al 10 giugno scorso. Dicevo, appunto, di aver seguito con piacere il dibattito in corso tra docenti, ricercatori, professionisti e tecnici attorno alla rivalutazione - in chiave attuale, da un punto di vista socio-economico e ambientale – della forma di governo a ceduo del bosco. Una forma di governo che era molto più diffusa in passato e che oggi rimane molto ben presente in determinate aree del nostro Paese, come per esempio sugli Appennini. Ebbene, la cosa che più ho apprezzato durante il corso, è stata quella di aver visto mettere in discussione certi schemi rigidi e indiscutibili (sono considerati addirittura dei dogmi) che per decenni sono andati per la maggiore. Mi riferisco a quella che si può definire come “altofustomania”, cioè quella tendenza a considerare come “vero bosco” solo quello di alto fusto, con sprezzo per quei boschi (e in relazione quindi anche a certe tipologie) che se ne discostano. Io personalmente ho accumulato, nella mia esperienza pregressa come agente del Corpo forestale del Friuli Venezia Giulia, una certa pratica nelle conversioni all’alto fusto dei cedui di faggio della montagna pordenonese. Sono quindi rimasto colpito (positivamente) dal fatto che non tanto lontano (leggasi Prealpi venete, in comune di Seren del Grappa), si sia voluto mantenere con grande convinzione il governo a ceduo sulle faggete e si stia discutendo sul come fare per ovviare ad alcuni inconvenienti manifestatisi nei decenni più recenti come risultato di un’errata definizione del trattamento (eccesso di matricinatura). Tutto quello che ho detto come lo posso riassumere? Lo riassumo ritornando all’inizio del discorso, dicendo che “le ricette” rigide e valide per sempre sono quelle che, se da un lato ci rassicurano e ci semplificano la vita, dall’altro lato possono portarci fuori strada qualora applicate senza tener conto dei fattori socio-economici, politici e ambientali presenti nel contesto locale e temporale considerato.

Nell’immagine qui sotto: partecipanti al 46° Corso di Cultura in Ecologia che discutono del trattamento di un ceduo a sterzo di faggio, sulle pendici del Monte Grappa, in comune di Seren del Grappa (BL)


La selvicoltura discutùda (e vérta)

La selvicoltura, me par da capì, nó l’é ‘na dissiplìna ferma unlì, sempre compagna. Vói dise che nó esiste rithéte (sistemi de tajà), pareciàth apósta par ogni qualità de bósch, che 'na‘volta ch’i é pareciàth i é validi par sempre. La selvicoltura la varda invéthe da dà le só risposte volta par volta, caso par caso, tignendo cónt de dute le condithións che le se ciata in un therto lóc e in un therto momento. E alòra, ‘sto lavoro de tornà a parecià da nóf, opùr de tornà a confermà al sistema de tajà, ‘l’é destinàt a tornà fòra, ogni tant, sul stéss tòc de bósch.
De recente ai partecipàt a 'na discussión interessante sul ruolo dei bósch cedui drento ‘na gestión multifunthionàl che la se sostìgne.  Chisto l’é stat al 46° Corso de Cultura in Ecologia, organisàt dal dipartimento TeSAF de la Facoltà de Agraria de l’Università de Padova, dal 7 al 10 de dhùin passàt. Diséve prima, da ‘vé seguìt volentiéra al dibàtito fat fra de professórs, rithercadórs, profesionisti e tècnichi sul tornà a considerà – in maniera moderna, tignùt cónt de le cuestións socio-economiche e anbientài – la forma de governo a ceduo del bósch. ‘Na forma de governo che ‘na volta l’era tant pi aplicàda e che uncuói la resta un grun presente in thèrte zone de l’Italia, come par esenpio sui Apenìns. Bèn, la ròba che la me à plasùt de pi del corso, l’è stada chèla da ‘vé vedùt a méte in discussión thèrti schemi rigidi e indiscutibii (i é consideràth come dei dogmi) che par dieséne de ains i à tignùt banco. Me riferìsse a chéla che se pól clamà "mania de l’alto fusto” che saràve chéla tendéntha a considerà come “bósch vèro" chèl de alto fusto e basta, có gran fastìde pa’ ch'i altre bósch (e alòra ancia pa' thèrte qualità de bósch) che n’i é de alto fusto. Mi ai ingrumàt, có dut al témp che sói stat a lavorà ‘n tel Corpo forestàl de la región, ‘na thèrta pratica de le conversións a l’alto fusto dei bósch de faèr de le nostre mónt. Sói alòra restàt maraveàt (pulìdo) dal fato che, nó massa lontàn da nealtre (sul Monte Grapa)*, i apia volùt mantìgne, convinti fòra de maniera, al governo a ceduo del bósch de faèr e i séa là ch’i descór su chè fà pa’ comedà thèrti sbagli fath ‘nte le ultime dieséne de ains par via che ‘l tai nó l’è stat chèl giusto (i à lassàt massa samenthài). Comót póssio spiegà in curt chèl che ai dita? Basta che tòrne a ripète chèl che ai dita in printhìpio: che le rithéte rigide e che nó le cambia mai, se da ‘na banda le ne fai còmet e le ne someà pi sigùre, da chel’altra le pól portàne fòra strada se le aplicón théntha tigne cont de le cuestións socio-economiche, politiche e anbientài che le se ciata ‘ntel lóc e ‘ntel momento che volòn considerà.

(*) in dialèto nó se diss Mont de la Sgnapa

 
‘Nte la fotografia ca sóte: la dhént che partecipava al 46° Corso de Cultura in Ecologia, intant ch’i descór de comót che l’é stat tajàt al bósch de faèr, sui palèrs del Monte Grapa, in comun de Seren del Grapa (Belùn) 


martedì 27 luglio 2010

Questa non ci voleva: una nuova piantaccia da estirpare

A tutti gli uomini (e, perché no, anche alle donne) di buona volontà, proprietari di boschi e non, segnalo un’azione utile: la lotta attiva per contenere il diffondersi negli ambienti forestali di una nuova pianta invasiva (non ci bastavano le altre piante infestanti già presenti…) . Si tratta di Spiraea japonica (per brevità spirea), un arbusto semi legnoso che da almeno una decina d’anni si sta espandendo nei nostri boschi in una maniera che io ritengo preoccupante. E’ molto facile da riconoscere, la vedete nelle foto qui vicino. E’ una pianta non autoctona, introdotta e usata a scopo ornamentale, quindi “sfuggita” dal controllo dell'uomo e adattatasi a vivere nei boschi. Nei querco-carpineti, specialmente, questa piantaccia si diffonde di anno in anno coprendo ampie superfici, sia in piena luce che in condizioni di parziale ombreggiamento. Solo l’ombra completa sembra frenarne la comparsa in massa. I maggiori problemi, come immaginabile, questa pianta li crea nelle tagliate, quando cioè si passa  improvvisamente da condizioni di forte copertura delle chiome a condizioni opposte. In contesti di questo genere, la sua comparsa e la successiva espansione sono quasi garantite. Il danno principale è dato dalla forte concorrenza che essa esercita nei confronti delle specie arboree tipiche. Nel caso specifico, i semenzali e le giovani pianticelle di carpino bianco, solitamente molto vigorose e coprenti, si ritrovano soffocate dal diffuso cespugliame di spirea, deprimendosi fino a morire. Quindi questa piantaccia fa dei bei danni, come potete capire. Io mi sono dedicato a contenerla, nel bosco di Ligónt, negli anni passati, con risultati insoddisfacenti. Vale a dire che ho cominciato con l’estirpare le piante intere, con le radici, durante l’inverno. La stagione seguente, il risultato era che non c’erano più le piante vecchie, avendole tolte, così ne nascevano un’infinità di nuove dai semi presenti nel terreno (è una caratteristica di queste piante produrre seme in quantità impressionante). Mi ritrovavo quindi con un tappeto di nuove pianticelle che rimpiazzavano quelle che avevo estirpato.
Per qualche anno non ho più fatto niente, poi, vista l’invasione, ho cambiato strategia: taglio raso terra dei cespugli di spirea durante l’inverno e successivo diserbo (con Glifosate) durante la stagione seguente, sui ricacci erbacei. Neanche questo tipo di intervento però mi ha soddisfatto: il danno del diserbante su tutta la restante vegetazione è a mio avviso troppo forte (vinca, acetosella, semenzali di carpino: tutto che se ne va…). Credo, quindi, che una strategia in grado di ovviare ai problemi che ho detto possa essere quella di eseguire l’estirpazione delle piante in piena vegetazione, prima però della completa fioritura, in maniera tale da impedire la formazione del seme. Forse, interventi di questo tipo, ripetuti per qualche anno, sarebbero in grado di contenere la diffusione massiccia di questa piantaccia. Unico problema, considerata la vita che conduciamo, quello di trovare il tempo e la voglia per fare questo tipo di lavori forzati.
In ogni caso ricordatevi: estirpiamola il più possibile!